venerdì 28 maggio 2010

via


lo spazio sufficiente a sopportare il peso del nostro scarpone, in un qualsiasi sentiero, in qualsiasi luogo del mondo.
quello spazio, quel punto preciso sul quale il mio piede poggia per una mia decisione, non è uguale agli altri, ma è di fondamentale importanza per proseguire verso la meta.
il sentiero è fatto di molti punti d'appoggio, ma alla fine ognuno di noi ne sceglie uno solo, come fosse il migliore, perché sa che sugli altri farebbe più fatica.
la vita è una continua ricerca di punti, dove sia più facile vivere, dove sia più facile essere felici, dove sia più facile capire il senso delle cose.
ce ne possono essere più d'uno e nel momento in cui si trovano, diventa davvero difficile e faticoso staccarsene.
perché si sa che un altro appoggio così per il proprio scarpone immediatamente non c'è e si è costretti a mettere il piede su una roccia bagnata, che fa fare fatica e magari scivolare.
questo fortunatamente non preclude il raggiungere la meta, non preclude il camminare sul sentiero e non preclude nemmeno l'essere felici e nemmeno capire il senso delle cose.


venerdì 7 maggio 2010

Il tempo dei cosmonauti

Se potessimo dare un nome a tutto ciò che accade, non ci sarebbe bisogno di storie. Il fatto è che da queste parti la vita supera il nostro vocabolario. Ci manca una parola e cosí si deve raccontare tutta la storia. Che rapporto c'era, ad esempio, tra il vecchio pastore Marius e il piccolo che Danielle portava in grembo quando lasciò il villaggio? Era il padrino del bimbo? Ne dubito.

La storia cominciò e fini nell'estate del 1982, lassú nell'alpeggio, che chiamiamo Peniel.

[...]

- Oggi sono calme, Danielle, - prosegui lui, - calme e arrendevoli, e stanno in gruppo. Non come ieri - ieri sentivano il temporale, e l'aria era piena di formiche volanti. Correvano a coda ritta. Ieri non puoi immaginare quanto erano antipatiche. E oggi sono melliflue. Dolci come il miele, Danielle.

Era l'inizio dell'estate e il prato era pieno di fiori: asfodeli, campanule, botton d'oro, arnica, colchici, primule e fiordalisi (che si dice siano le anime dei poeti).

Danielle aveva ventitre anni. Sua madre era morta e lei viveva con il vecchio padre, che aveva cinque vacche e qualche capra. Lavorava nel magazzino di una fabbrica di mobili ma nella primavera del 1982 la fabbrica era fallita, e cosí lei si era offerta di portare gli animali del padre sui monti - alla baita dove da bambina aveva passato numerose estati con la madre.

«Dove trova il coraggio di starsene lassù da sola?», si chiedeva la gente del villaggio. Ma la verità era che lei non aveva bisogno di coraggio. Quella vita le si addiceva - il silenzio, il sole, la lenta routine quotidiana. Come capita a molte persone che sono sicure di se stesse, Danielle metteva un po' soggezione. Ai balli del villaggio i ragazzi non facevano a pugni per farle da cavalieri nonostante danzasse bene e avesse fianchi larghi e piedi minuscoli. Non erano sicuri che avrebbe riso delle loro battute. E cosí dicevano che era lenta. In realtà, la sua cosiddetta lentezza era una forma di imperturbabilità. Aveva un viso largo - un po' come quello delle squaw indiane - occhi scuri, spalle ampie, polsi piccoli e mani grassocce e capaci. Era facile immaginare Danielle come madre di molti bambini - salvo che lei non sembrava avere alcuna fretta di trovarsi un uomo a far loro da padre.

[...]

John Berger

(http://www.tecalibri.info/L/LONGO-D_racconti.htm)